La strategia ludica tra Counseling e Coaching

Una strategia dell’ascolto che l’operatore può utilizzare e costruire con l’altro utente riguardo al gioco si trova sul versante simbolico ed è regolato da un ordine che è un vero e proprio linguaggio. Per spiegare meglio quello che riguarda il fulcro dell’attività simbolica, ovvero un linguaggio che permette al bambino, per esempio, di parlare di se e del disagio (strutturale non particolare) che lo riguarda nella relazione con l’Altro, bisogna attingere alla storia di S. Freud. Egli un giorno osservò il suo nipotino Ernst che stava giocando. Nell’osservarlo che cosa fece Ernst di così importante ? Che cosa osservo ed ascoltò il nonno Freud ? L’esperienza fatta da Ernst consisteva in un atto semplice ma significativo per la soggettività del bambino. Ernst giocava a mandare un rocchetto di filo sotto un divano tenendo stretto il filo in mano, si divertiva a mandarlo avanti e tirarlo indietro in modo ripetuto in piena autonomia ed in piena libertà. Nel fare ciò diceva 2 parole “fort” e “da” tradotto in italiano “via” e “ecco” e lo diceva simultaneamente quando lanciava e tirava il rocchetto. “Queste due parole inoltre accompagnavano sia il tempo di uscita del rocchetto sia la velocità. Il bambino, in questo modo, costruì un simbolo di un qualcosa che egli stesso sentiva in termini di perdita dell’oggetto d’amore materno al posto del quale faceva partire il rocchetto per un andata e ritorno ludici. Con questo atto Ernst simbolizzava per la prima volta la perdita o la mancanza strutturale prodotta nel suo discorso di soggetto-infans a partire dal posto in vi è stata perdita di godimento ovvero da dove sua madre si era mossa ed assentata.”
Che cosa ci ha detto Freud con questa esperienza ? Ci ha fatto capire che i bambini hanno il loro modo di comunicare giocando. In poche parole Ernst ha sublimato il vuoto lasciato dalla madre riempiendolo con l’organizzazione del gioco partendo dalla costruzione del rocchetto, con il gesto e con la pronuncia dei 2 significanti “Fort” e “Da”. Quindi la forza pulsionale di Ernst era tutta concentrata nell’atto ludico e nella pronuncia delle 2 parole. Cosa ci insegna questo lavoro analitico che Freud ha evidenziato ? Tutto ciò ci insegna che i bambini vanno lasciati liberi di giocare ! Non importa per forza organizzare loro le attività. Bisogna saper creare prima il vuoto, l’operatore ha il compito di saperlo gestire, e per primo deve partire dal proprio, con una formazione orientata a sapersi ascoltare. Come in tutti i giochi e quindi anche ed a maggior ragione nello sport, la strategia ludica ha il senso di creare un alternanza simbolica come il fort-da. Il gioco sportivo non deve avere sempre il “pieno” , ma deve avere un vuoto ed un pieno, un “+” ed un “-”, un “fare e “disfare”. Tutto questo permette al soggetto sportivo di dare spazio alla propria creatività, scegliendo l’attività che vuole svolgere oppure anche nell’organizzazione prestabilita con l’ausilio di poche regole può inventarsi anche un gioco di sana pianta.

Per meglio spiegare quando detto precedentemente possiamo accennare alla differenza tra jogus e Ludus che avveniva nell’antica Roma infatti in quel periodo vi erano due diverse attività basate sul gioco, uno era lo jogos e l’altro era il ludus. Lo jogos era tutto quello che concerneva il gioco istituzionale, quello che la legge e la società globale decidevano di fare. Il ludus era invece il gioco personale, quell’attività soggettiva ed unica che il soggetto sceglieva di fare. Mi sono sbizzarrito a cercare su internet qualcosa al riguardo ed ho trovato un passo del filosofo Seneca che parlava di educazione-scuola e gioco:
“Pueri et puellae ludum amant et ludere magis quam studere malunt. Pueri libenter pila ludunt, puellae autem cum ligneis vel eburneis pupis ludere amant et pueri et puellae trocho ludere amant. sed “ludus” etiam aliud significat pueris romanis: a romanis enim “ludus litterarus” appellatur quod nos appellamus. Pueri et puellae in ludo -id est in schola- sunt ubi ludi magister eos docet legere, scribere stylo in tabulis ceratis et numere calculis. pueri romani certe pilae ludum magis quam litterarum ludum amant! schola enim, etiam si ludus vocatur, ludere non permittit et magister, etiamsi ludi magister appellatur, si discipulus in schola ludit, eum ferula pulsat.”

SENECA

fanciulli e le fanciulle amano il gioco e preferiscono giocare più che studiare. I fanciulli giocano volentieri a palla, mentre le fanciulle amano giocare con bambole di legno o di avorio. Sia i fanciulli che le fanciulle amano giocare al troco (è intraducibile credo… “al cerchio” forse è più corretto).
Ma “gioco” significa anche altro per i fanciulli romani: dai romani infatti è chiamato “gioco della letteratura”. I fanciulli e le fanciulle sono nel “ludus” – ovvero a scuola- dove il “maestro di gioco” insegna loro a leggere, a scrivere con lo stilo sulle tavolette di cera e a fare i calcoli. I fanciulli romani certamente amano il gioco della palla più che il “gioco della letteratura”!
Infatti la scuola, anche se è chiamata “gioco”, non permette di giocare e il maestro, anche se si chiama “maestro di gioco”, se l’allievo gioca a scuola, lo bacchetta.

Come possiamo leggere da questa versione di Latino tratta da Seneca, già ben oltre 2000 anni fa “circa” esistevano dilemmi tra gioco ed educazione, questo ci deve far capire che trovare un’alternativa può essere una via da perseguire, non solo nello sport ma anche di altri campi, non molto facile. Ma il fatto che vogliamo considerare sia il lato Sportivo (del gesto) sia il lato mentale (la psiche) può essere una giusta scommessa.
Il ludus per antonomasia quindi è possibile paragonarlo alla “ricreazione” che viene effettuata in un luogo sociale, come io facevo alle scuole elementari quando ero piccolo. A a metà mattinata circa suonava la campanella e per un ora uscivamo all’aperto (quando il meteo lo permetteva) e potevamo scorrazzare per tutto il prato adiacente alla scuola, semplicemente gioco libero, le maestre controllavano che non succedesse niente di pericoloso ma non intervenivano nell’organizzazione e ci lasciavano andare su e giù. Degli esempi che posso citare sono: rimpiattino, acchiappino, nascondino, campana, calcio, giochi di travestimento (per esempio organizzato di solito dalle bambine).
Perché è così positivo il ludus ?
Perché si caratterizza da un energia creativa e pulsionale soggettiva. Nel mio caso in particolare mi ricordo che la maggior parte del tempo, noi maschietti, giocavamo a calcio. Non vi era nessun campionato, ne classifiche marcatori ne partite pianificate, tutti i giorni le squadre venivano “fatte” (in gergo dicevamo “facciamo le squadre”) con il sistema del pari e dispari ovvero due capitani facevano pari e dispari, che vinceva poteva scegliere il primo giocatore (ovviamente quello più bravo) e via via tutti gli altri a seguire. Alla fine della ricreazione neanche ci ricordavamo del risultato, ma ci ricordavamo di quell’azione spettacolare o di quella parata eccezionale. Spazio ri-creativo a tutti gli effetti, quella pausa di metà mattinata ci permetteva di creare quel piccolo vuoto, colmato con l’attività fisica, che toglieva pesantezza allo studio stesso.
Adesso però un interrogativo è d’obbligo per continuare questa tesi :
Come è possibile attuare il fort-da (alternanza simbolica) nello sport do oggi ? In quel mondo dove praticamente non esiste spazio per il ludus ed è maggiormente enfatizzata la parte agonistica ?
A tali domande posso rispondere, in parte, descrivendo quello che ho messo in atto nella mia esperienza di allenatore di triathlon e come ho effettuato il lavoro con il settore giovanissimi (eta 8-13 anni).
Nel periodo estivo ho organizzato una “settimana del triathlon” , tutti i giorni dalle 9 la mattina alle 5 del pomeriggio i bambini facevano attività basate su le tre discipline (nuoto, bicicletta e corsa) ed attività libera (scivoli in acqua, calcio, giochi da tavolo, tuffi etc.. etc.) In pratica l’alternanza era tra il praticare le attività “istituzionali”, i tre sport del triathlon, e le attività libere quindi “non istituzionali”. Quello che riuscivo a innescare era una sorta di “fare” e “disfare”, ovviamente la parte ludica era nelle attività libere, ma a me andava bene così, l’importante era che i bambini si divertissero a trovare il proprio spazio senza che io dicessi quale fosse ed in che modo bisognasse occuparlo. La ricreazione era gestire uno spazio vuoto, riempiendolo con un’attività creata dai bimbi stessi senza che l’adulto (in questo caso io o il mio collaboratore) intervenisse. Il risultato era un divertimento collettivo senza pressione, senza obiettivi di prestazione e in alcuni casi è stato anche proficuo dal punto di vista del rapporto genitore-figlio. Ricordo che un bambino mi era stato portato ma con una piccola problematica, a 8 anni non sapeva ancora andare in bicicletta, un bel problemino visto che nel triathlon c’è la parte dedicata alla bici. Con spavalderia io dissi alla madre che ci avrei pensato senza nessun problema, al che lei mi disse : – Guarda che noi (lei ed il padre) ci abbiamo provato tanto ma senza risultato, secondo me sarà molto difficile !!
Io la rassicurai e solo dopo 10 minuti di insegnamento col bambino senza che gli altri bimbi vedessero, insegnai ad Alessandro ad andare in bici, ci riuscii dando fiducia al bambino e dicendogli che avrebbe dovuto guardare in avanti anziché in basso verso l’asfalto. La sera mi arrivò un messaggio sul telefono da parte del padre, mi ringraziava tantissimo per quello che avevo fatto e voleva condividere con me la sua felicità nel vedere suo figlio che andava in bicicletta davanti casa in piena sicurezza e libertà. Quando dissi alla madre che ci avevo impiegato solo 10 minuti non ci voleva credere. Io ho sempre pensato che coloro che sono implicati sentimentalmente in un rapporto non posso essere dei buoni insegnanti, questo fatto testimoniava la mia tesi. I genitori pur essendo volenterosi e desiderosi di voler insegnare al proprio figlio ad andare in bicicletta, non riuscivano a trasmettere la necessaria sicurezza al bambino a non aver paura. Questo è anche quello che l’operatore all’ascolto chiama avere la “giusta distanza” e come genitore è realmente difficile averla.
Un altro esempio di quello che è accaduto in questa settimana è il caso di Noemi. Infatti Noemi è la figlia di un mio caro amico triatleta, da sempre coinvolta dal padre nel praticare triathlon anche se lei in cuor suo non ha mai avuto il benché minimo desiderio di farlo. Tutti i giorni quando si facevano esercizi dove c’era un po di competizione (scatti, ripetute, esercizi di rapidità e velocità) lei veniva fuori con mal di pancia e mal di testa che, presumo io, fossero simulati. Il fatto era che a Noemi non piaceva competere e non piaceva fare Triathlon ! Il fatto positivo era che comunque si divertiva lo stesso al campo perché con gli spazi “ricreativi” tra un attività e l’altra riusciva a tirar fuori tutta la sua dinamicità e creatività nei giochi liberi. Dopo vari colloqui col padre sono riuscito a fargli capire che il triathlon non era lo sport più indicato per Noemi e che forse era doveroso capire quale sport o attività fosse più congeniale per lei. A quel punto tramite la collaborazione della madre siamo riusciti a capire quale attività desiderasse fare Noemi e dopo vari tentativi lei si è dedicata a sport completamente diversi dal triathlon come il karate e la ginnastica ritmica. A differenza di quello che succede nei classici ambienti sportivi, ovvero che quando un bambino decide di praticare altri sport si perde un “cliente” e quindi per la società ed il tecnico è un fallimento, per me è stato un vero successo e lo è sempre quando un bambino sceglie liberamente un altro sport. L’importante è che la scelta sia fatta senza la pressione dei genitori, altrimenti il discorso non vale.
Dopo questa testimonianza riguardo al piccolo caso di Noemi e per continuare a rispondere alle due domande sopracitate, è giusto introdurre un’altra arma che ha a disposizione l’allenatore / counselor per applicare il vero atto ludico e cioè lo strumento dell’ascolto, ed in particolare mi soffermerei sull’ascolto del desiderio. Senza un’attenzione particolare alla parola, non sarebbe stato possibile, per esempio, capire quale fosse il vero desiderio di Noemi e come fosse possibile dirottarla verso “Altro”. Per analizzare meglio questo aspetto però vorrei partire dalla parola desiderio: dal latino desidérum (verbo desiderare) ovvero “movimento della volontà verso cosa che ci manca”. Il verbo desiderare, a sua volta, è composto da “de” e “siderare” che ha il significato di fissare attentamente le stelle. Quindi per passare alla definizione del Vocabolario: 1) provare desiderio di qualche cosa; volere fortemente quanto può appagare un nostro bisogno o piacere. 2) Aver bisogno, avvertire la mancanza.
Su queste definizioni si potrebbe intavolare tante considerazioni ma io mi soffermerei su una delle definizioni psicoanalitiche del desiderio ovvero “il desiderio è sempre il desiderio dell’altro”. Che cosa significa ? Significa che in prima istanza se io desidero, desidero sempre la alterità che l’altro mi offre, desidero il suo corpo come meta del mio muovermi, in altre parole desidero qualcuno che dia credito ai miei talenti, visto che da solo ce la faccio fino ad un certo punto; in seconda istanza se io desidero è perché ho visto qualcun altro desiderare, ho imparato da qualcun altro come si fa a desiderare, qualcuno mi ha fatto vedere come si fa, qualcuno mi ha tramandato qualcosa che riguarda il desiderio. L’esempio letterario per eccellenza è lo sguardo di Dante che s’innamora di Beatrice non guardando direttamente lei, ma osservando allo specchio lo sguardo della donna che stava osservando Beatrice. Il Desiderio però deve essere regolato da un principio, che può essere per esempio quello del piacere, e deve avere una norma laica e/o giuridica messa in atto dal desiderato e dal desiderante che sono in relazione (amicizia, affari, amore….. etc.. etc). Quindi : il desiderio non è un vizio, non è un oggetto, non è facilmente raggiungibile ed è soprattutto precario, infinito e paradossale.
Su queste considerazioni allora è possibile formulare alcune teorie su come poter capire e di conseguenza tramandare il desiderio negli sportivi.
1) L’allenatore (operatore) deve essere un soggetto desiderante, ha bisogno di essere implicato realmente nel proprio desiderio, deve avere un progetto, una strada che sta percorrendo per se stesso, un reale motivo di essere in quel posto e in particolare un reale senso per la vita e per quello che sta facendo.
2) Il counselor/allenatore bisogna che sia in grado di stare dentro una propria etica, che sia coerente con quello che pensa anche rischiando di fare dei “nemici” (coloro che non la pensano come lui), deve saper usare tutti gli strumenti necessari per avere una comunicazione efficace e tracciare quei confini invisibili che sono la parte più normativa del desiderio.
3) Il senso ci deve essere in qualsiasi attività venga proposta, qualsiasi utente, sportivo o non, bambino o adulto che sia ha il diritto di sapere il senso di quello che sta facendo, basarsi su considerazioni non solo oggettive (scientifiche e teoriche), ma anche soggettive sempre puntualizzando che è una punto di vista dell’operatore basato sulla propria esperienza.
4) Utilizzare la metafora della vecchia signora e lo schiavo :
Infatti narra un antico testo persiano che quando Giuseppe (bellissimo schiavo) fu messo in vendita dai suoi fratelli si presentarono molti compratori, tra cui una vecchia signora che stringeva alcuni gomitoli di lana che aveva fatto con tanta energia. “Anima semplice”, le disse il sensale “come puoi comprare un simile gioiello di schiavo con i tuoi gomitoli ? “. Essa rispose con decisione “lo so che non potrò comprarlo, mi sono messa in fila perché amici e nemici possano dire: anche lei ci ha provato”. Lavorare sempre nella direzione del Provare fino in fondo anche il solo desiderio di farlo !!!

Gli strumenti del counselor (ascolto – domanda) e la trasmissione del sapere

Per interpretare al meglio tutta questa tesi sul counselling sportivo, a questo punto, bisogna fare una netta distinzione tra l’approccio operativo e l’approccio clinico. Infatti, secondo me, ci sono 2 nette differenze tra l’operatività di un counselor sportivo definito «clinico» e l’operatività di un counselor sportivo definito «operativo». Mi spiego meglio, il counselor clinico è quel counselor professionista che in base ad una domanda di aiuto intraprende un percorso con più sessioni (massimo 9) con un rapporto di uno ad uno per arrivare ad aiutare l’utente nelle proprie problematiche. Questo tipo di counselor non ha la necessità di essere inserito direttamente nel mondo sportivo, in quanto professionista «tout court» con i due strumenti dell’ascolto e della domanda può eseguire con efficacia il suo lavoro. Il counselor sportivo operativo al contrario non fa un lavoro di uno ad uno con sessioni prestabilite con l’utente, bensì opera nel proprio settore di lavoro e competenza (ad esempio potrebbe essere un allenatore / trainer di uno sport in particolare) e con questo ruolo adotta tecniche di counseling usando sempre i due strumenti base del counselor che sono l’ascolto e la domanda. A questo punto approfondirò a dovere questi due strumenti. Per spiegare in modo oggettivo ho preso spunti e contenuti dalle pubblicazioni di riferimento del mio orientamento formativo, i due testi a cui mi riferisco sono il Dizionario di counseling e psicoanalisi laica e L’ atto Pedagogico. Questo è doveroso sottolinearlo per prendere le distanze tra le mie considerazioni e la letteratura a cui io mi sono ispirato per scrivere questa tesi.
Epistemologia dell’ascolto
“Per un operatore a orientamento psicoanalitico conoscere l’ascolto, saperne individuare le componenti ed i meccanismi, è un elemento essenziale della propria formazione. Benché l’ascolto a orientamento psicoanalitico non presupponga una vera e propria tecnica bensì un insieme di procedure fondate sul sapere sull’ascolto, è opportuno chiarire la posizione (immaginaria o simbolica) dell’operatore rispetto all’altro (portatore di un disagio) e rispetto all’Altro, luogo simbolico dal quale l’altro disagiato parla.”
A proposito del sapere è giusto descrivere, visto che il titolo della tesi è proprio inspirata ai tre registri, “la svolta che ha introdotto Lacan all’interno del concetto di sapere, in quanto il sapere, si lega (anche il più apparentemente oggettivo) ad una dimensione definita della jouissance, ovvero del godimento. Lacan vede nel godimento del soggetto una mescolanza di piacere e dolore, una sorta di “masochismo”, non a caso una forma del godimento può manifestarsi infatti sul corpo del soggetto. “Se il soggetto non parla, il corpo parla per lui”. Accanto a questa definizione centrale vi è un enorme contributo che consiste nella articolazione dei tre registri che nel loro insieme prendono, catturano e inscrivono il soggetto dell’inconscio come insieme degli effetti derivati dall’Altro (genitoriale, sociale, istituzionale) come luogo dei significanti (S1, S2 …) che rappresentano il soggetto medesimo e il suo atto all’interno della sua storia”. Spiegherò brevemente come è possibile legare la teoria dei tre registri all’interno della mia tesi.

Immaginario
….. o della identificazione
“E’ la dimensione soggettiva che nel sapere riguarda la funzione che coincide con l’Ideale, con la costruzione di un discorso fumoso del bene per il bene, della chiacchera, della falsa idea del soggetto, in pratica, una funzione che riduce il soggetto all’Io, al moi:”
<< La conoscenza umana, e nello stesso tempo la sfera dei rapporti della “coscienza” , è fatta di un certo rapporto con quella struttura che chiamiamo l’ego, attorno al quale si centra la relazione immaginaria. Questa ci ha insegnato che l’ego non è mai soltanto il soggetto, ma è essenzialmente rapporto con l’altro, con il suo punto di partenza e d’appoggio nell’altro. E’ da questo ego che tutti gli oggetti sono guardati >> J. Lacan, Il seminario. Libro II
“In questa relazione egoica di tipo immaginario sono comprese le sia le relazioni pedagogiche educative (maestro-allievo, insegnante-scolaro, educatore-utente), sia le relazioni proiettive dell’Io che costruisce un proprio oggetto di conoscenza. La consistenza dell’immaginario, quindi, diventa una caratteristica essenziale dei prodotti egoici, della quale l’uomo non può fare a meno in quanto presente nella sua dimensione conoscitiva, come evitamento della soggettività e del paradigma su cui si fonda. A questo punto possiamo riassumere le caratteristiche del registro immaginario” :
 Io (moi)
 Consistenza
 Identità
 Immedesimazione
 Identificazioe
 Proiezione
 Anticipazione
 Aspettativa
 Io-ideale
 Stereotipi
 Ideologie e mode
 Agon
 Nozionismo
 Chiacchera
Nello sport l’agonismo va di pari passo con l’egoismo, infatti, se analizziamo bene i caratteri dei campioni, si evince con facilità che hanno un grande lato narcisistico ed a mio modo di vedere è anche per quello che riescono a vincere e di conseguenza ad essere campioni. La domanda che va analizzata quindi è quanto l’ego che è anche agon fa bene al soggetto sportivo campione o non ? Oserei dire che sarebbe meglio che ce ne fosse quanto basta senza esagerare perché è controproducente per il soggetto dell’inconscio. Ma è anche vero che ci deve essere in parte perché è una caratteristica essenziale. Per quanto riguarda l’atto operativo l’immaginario dovrebbe essere contenuto al minimo indispensabile, quindi, in pratica l’operatore non dovrebbe sicuramente andare a sovraccaricarlo, cercando sporadicamente, se possibile, di smontarlo.

Simbolico
… o dell’alternanza …
“Il registro del simbolico introduce nella realtà del soggetto umano la dimensione dell’alterità, della dissimmetria, dell’alternanza e dunque della dimensione che richiama un altra scena, quella della parola e del linguaggio che Lacan definisce con il termine di Altro, inteso come luogo dei significanti. Se nel registro dell’immaginario l’altro e gli oggetti della conoscenza sono guardati dall’Io come suoi riflessi, nel registro simbolico l’altro e gli oggetti sono sottoposti alla logica del desiderio ed al suo ordine. Il simbolico nella relazione educativa non dovrebbe essere nient’altro che un atto in cui sia possibile inscrivere la propria esperienza operativa, circondandola di una miriade di attenzioni che fanno capo a quelle sfaccettature particolari, ai dettagli che per natura gravitano all’interno dell’educazione di ogni singolo individuo. Quello a cui bisogna fare una grande attenzione è trattare il simbolico in maniera errata e ridurlo all’immaginario ovvero “mi insegni questo ed io lo applico”. In questo caso l’Io si adatta a ciò che l’altro impone mentre il soggetto e la sua logica simbolica vengono cancellati e ridotti all’Io stesso che vuole soddisfare ciò che l’altro gli dice. Tutto questo si verifica quando s’impone all’individuo una condotta che deve eseguire senza pensarci e senza pensare al senso di questo elemento, ma solo all’Altro che glielo ha detto.
Riassumendo le caratteristiche del Simbolico possono essere le seguenti” :
 Soggetto (je)
 Sapere edipico
 Dissimetria
 Alternanza
 Discordanza
 Logica del desiderio
 Ludus
 Alea

A differenza dell’immaginario, il simbolico dovrebbe essere il vero motore del soggetto, ovvero, la logica del desiderio. Ma come è possibile smuovere questo motore “silenzioso” ? Questo mondo dove la logica dell’alternanza è alla base ? Secondo me la rivalutazione dell’atto veramente ludico è alla base. Lo sportivo, bisogna che anche se professionista, agonista oppure amatore riesca in qualche modo a divertirsi in quello che realmente fa ed agisce quotidianamente. L’operatore tramite la parole dovrebbe essere in gradi di lavorare sul particolare soggettivo e tirare fuori qualcosa che rivaluti il divertimento.
Reale
… o dell’impossibile …
Quando Freud affermava che educare è un mestiere impossibile, senza saperlo, introduceva una caratteristica del registro del reale, ovvero l’impossibile. Il registro del reale ha a che fare con qualcosa che non è definibile, toccabile, realizzabile, rappresentabile e che non si completa. Il registro del Reale ha a che fare però con qualcosa che è afferrabile solo a partire da ciò che non è dicibile ne pensabile, bensì toccabile con mano, dal corpo. Ovvero dal corpo e da quell’economia pulsionale che qualifica la psicoanalisi. Il concetto di corpo, allora, va applicato essenzialmente al reale del corpo ovvero come quel corpo, questo mio corpo, o questo corpo che ho vicino, mentre non incontro il corpo come concetto o categoria che mi rimanda all’insieme degli organi biologici e vitali che sostengono l’uomo.
<<Il reale non è il mondo, non c’è nessuna speranza di cogliere il reale mediante la raprresentazione. Non mi metterò ad invocare la teoria dei quanti, né l’onda e il corpuscolo. Sarebbe meglio però che ne foste al corrente anche se non vi interessa e per essere al corrente, basta che apriate qualche libretto di scienza, potete farlo anche da soli. Il reale, di conseguenza, non è universale. Il che vuol dire che è tutto solo in senso stretto, in quanto ciascuno dei suoi elementi è identico a sé, ma senza che si possa dire “tutti”. Non ci sono “tutti gli elementi”,ci sono solo insiemi da determinare in ciascun caso. E non occorre aggiungere: questo è tutto. Il mio S1 ha solo il senso di sottolineare questo “qualsiasi cosa”, questo significante-lettera che scrivo S1, che non si scrive se non facendolo senza alcun effetto di senso. In fin dei conti e l’omologo di quanto vi ho appena detto dell’oggetto a>> J. Lacan in La Psicoanalisi n.12
“Il maestro, l’insegnante o l’educatore si sono sempre trovati nella loro pratica di fronte ad un ostacolo che riguarda la non universitalità e totalità dell’informazione e dell’apprendimento; tutto ciò, con la psicoanalisi, è stato riqualificato come qualcosa di inevitabile e quindi di necessariamente inscrivibile nel campo educativo come particolare soggettivo. Tra chi insegna o educa e chi apprende si frappone inevitabilmente la questione del corpo, perché il soggetto umano è sempre un corpo parlante e ascoltante.
Le caratteristiche del reale possono essere così sintetizzate” :
 Logica dell’incontro
 Amore per il sapere del reale
 Reale come impossibile
 Oggetto piccolo a come agalma
 Reale del corpo o delle pulsioni
 Economia delle pulsioni
Il Reale nel mondo dello sport e di conseguenza nel soggetto sportivo è senza dubbio il limite. Il limite sconquassa l’utente e lo riporta, con i piedi per terra. Il reale potrebbe essere contestualizzato come un incontro con l’imprevedibile dove non si è in grado di essere pronti e comunque sia bisogna saperci avere a che fare. Come operatore l’unica cosa che non deve essere fatta è tapparlo, il buco va lasciato così com’è ed il soggetto bisogna che se ne faccia una ragione. Sostenere questo atto non è facile, ma in quanto eticamente implicati nel discorso della relazione d’aiuto, i counselors sportivi dovrebbero essere in grado di sostenere questa angoscia.
Epistemologia della domanda
“Riguardo alla domanda il counselor, ad orientamento psicoanalitico, se ne prende carico cercando di chiarirla fino in fondo, il suo ruolo quindi è quello di limitarsi all’epistemologia della domanda. Nell’ascolto la domanda dell’utente non va recepita in maniera empatica ma va ricostruita in maniera etica, di soggettivazione, attraverso una sua riformulazione. L’operatore ha a che fare con il registro immaginario e simbolico del soggetto disagiato e deve tener presente la differenza tra il soggetto della interlocuzione (Altra Scena) e soggetto della comunicazione”.
Per fare un esempio operativo, una situazione tipica potrebbe essere quella di un allenatore o preparatore atletico di sport come calcio / basket / volley di una qualsiasi squadra, dove opera a livello tecnico insegnando la propria disciplina ed ha a disposizione delle competenze aggiuntive a livello mentale / motivazionale per interagire meglio con gli allievi.
Come si traduce tutto questo in pratica ?
In pratica posso assolutamente dire che le sessioni di lavoro (in altre parole gli allenamenti, le gare o tutti i momenti di frequentazione insegnante / allievo) sono delle occasioni uniche di ascolto e domanda. Infatti devo fare una precisazione: nel caso di un bambino / ragazzo pur non essendone consapevole è sempre portatore di un disagio, che può essere causato dal sociale, dalla famiglia dagli ambienti che frequenta oppure dallo stesso sport. Quindi l’ascolto in questi casi è paragonabile, in un certo senso, all’approccio clinico. Molte volte l’allievo si avvicina con estrema cautela a certi argomenti, che lo riguardano in modo particolare, ma appena si accorge che trova un punto di ascolto fecondo si lascia andare ed inizia a parlare di tutti quei problemi tipici della sua età, questo è quello che chiamo il lavoro «silente» del counselor / operatore. L’obiettivo è quello di innescare un processo interlocutivo nell’allievo in modo che lui stesso inizi ad affrontare le problematiche inerenti alla sua celata richiesta di aiuto. Molto spesso si parte da problematiche molto semplici, per arrivare a situazioni complesse dove il counselor, senza il supporto dei genitori, però può fare ben poco. L’importante in questo tipo di lavoro è comunque suscitare nell’allievo la giusta curiosità, rispolverare in lui una pulsionalità soggettiva verso il sapere (il suo) che in certi casi (per non dire molti) è fatta fuori da un sistema, quello moderno, estremamente perverso come Lacan spiega in modo chiaro, nel quinto dei suoi discorsi che è «il discorso del Capitalista» ovvero un circuito di riciclo nel quale “tutto si consuma” incessantemente, secondo un’espansione globalizzante, nell’illusione che in questa consumazione infinita la “mancanza a essere” che costituisce l’esistenza possa essere magicamente risolta. Infatti giovani di oggi, che i sociologi moderni chiamano «generazione Y» sono stati precostituiti da un sistema (quello capitalistico) che porta loro a pensare ed a vivere per «produrre» e per «consumare» ed assolutamente per «non interrogarsi». L’imperativo è «GODI» !!! che tradotto in termini semplici è «devi godere del tuo oggetto», quale oggetto ? Sempre uno diverso, sempre quello successivo a quello già goduto. Il disagio della giovinezza prodotto dal discorso del capitalista è un disagio legato ad un effetto di intasamento e di intossicazione generato dall’eccesso di godimento e dal declino della funzione simbolica della castrazione.
La figura del counselor ad orientamento psicoanalitico, quindi, ha come uno degli obiettivi primari scardinare, o meglio di tentare di farlo, l’attaccamento del soggetto a quel tipo di sistema, insieme ad altre funzioni educative, una di queste infatti è l’inscrizione dell’atto pedagogico nel Campo Analitico.

Alessandro Pardocchi